Da leggere davanti al caminetto, se ce l’avete.
Da leggere con una tazza di tisana in mano
per scaldarsi e regalarsi del tempo di valore.
Per gioire dello stile, della bellezza delle parole e della lingua.
Per riconoscersi.
Per sorridere di sé.
Per sentirsi meno sole.
Ho scelto cinque titoli molto diversi tra loro: due di essi sono autobiografie; gli altri tre, romanzi.
In comune hanno di essere libri di autori italiani, scritti da donne, e di saper raccontare oltre i luoghi comuni.
“Un libro lo giudichi in base a quanto tempo ci pensi dopo aver chiuso l’ultima pagina”, è stato detto.
Be’, ci sto pensando da un po’.
Donatella Di Pietrantonio, L’Arminuta
Ho letto questo libro perché mi è stato consigliato e portato a casa insieme a un cabaret di pasticcini da una mia amica abruzzese con la quale all’apparenza non ho niente in comune, a parte l’amore smisurato per uno scrittore tedesco del dopoguerra. Evidentemente non è poco, se tutte le volte che mi consiglia un libro, si libera un mondo che diventa parte di me.
L’Arminuta, “la ritornata”, ancora bambina, è costretta a tornare dalla sua famiglia d’origine che l’aveva lasciata a una coppia senza figli, dopo la separazione dei genitori affidatari. La nuova casa è piccola, buia e numerosa di fratelli che la guardano con sospetto, con i quali dovrà condividere il poco cibo che arriva in tavola. Con Adriana, la coraggiosa e indipendente sorella minore, instaurerà un legame speciale.
Ho letto da qualche parte che questo sia un romanzo sulla maternità. Invece no, questo è un romanzo sull’essere figli. Figli adottivi o naturali, ma sempre sacrificati – alle ragioni economiche, a un nuovo amore – sempre amati troppo poco e solo in funzione alla realizzazione della propria genitorialità: nel rimorso se sono stati abbandonati; come senso del dovere quando ripresi indietro; con l’orgoglio se diventano i migliori della scuola o infine nel lutto, quando muoiono precocemente.
Ma mai amati davvero, con tenerezza, per quello che sono: bambini nell’impresa di crescere e diventare se stessi.
L’Arminuta è un’opera lieve e potente. All’inizio la lingua mi è sembrata scarna, invece era l’unica possibile per descrivere un mondo di relazioni avare d’amore, la delusione dei bambini, la paura di fidarsi e poi essere abbandonati di nuovo, che è descritta così:
Avevo paura di essere di nuovo felice.
Donatella Di Pietrantonio, che con questo romanzo ha vinto il Premio Campiello 2017, vive in provincia di Pescara, dove esercita la professione di dentista pediatrico.
La prima cosa che ho pensato quando ho chiuso questo libro è stata che se io abitassi da quelle parti, in Abruzzo, mio figlio da una dentista così lo porterei con fiducia, perché sicuramente chi ha scritto l’Arminuta farà di tutto per alleviare il dolore dei piccoli pazienti.
Angela Langone, Diario (tragicomico) di una mamma
A proposito di maternità, vi suggerisco questo libro uscito nel 2020 (foto di apertura).
A differenza di quanto si potrebbe pensare, non si tratta di un’autobiografia sotto forma diaristica, ma di un romanzo.
La protagonista, Francesca, è una donna come tante, che lavora, s’innamora, si sposa e poi desidera un figlio.
Una maternità da manuale, la definisce. Normale, come la sua relazione con Davide: un percorso regolare e annunciato che non può che portare alla genitorialità.
Non sono mai stata attratta dalle vicende straordinarie. Non c’è mai fantasy tra le mie scelte di lettura o noir ambientati nei bassifondi della criminalità.
Mi interessa l’ordinario raccontato in modo straordinario.
Angela Langone sceglie di farlo con ironia: la sua scrittura è veloce, visiva, quasi cinematografica;
solo ogni tanto rallenta per lasciare spazio all’intimità – con pudore, senza mai calcare la mano.
Così il libro si svela poco alla volta, e sorprende perché all’inizio sembra sia stato scritto solo per far sorridere, per raccontare le disavventure della protagonista alle prese con la sua nuova vita di gravida e poi neomamma.
Ma man mano che vai avanti a leggerlo, ti accorgi che i personaggi hanno spessore, sono veri. E quindi che quello che succede loro non ti lascia indifferente.
“Francesca è una di noi – dichiara l’autrice – autoironica, a volte insicura… una brava ragazza.
Quando diventa mamma, i primi tempi sono duri, c’è l’ombra della depressione post-parto e della solitudine che coincide con l’allontanamento di un marito che vuole restare a galla, e lo fa ritagliandosi spazi in cui la moglie non può entrare. Francesca non sa cosa fare, mentre sente che la certezza dei propri sentimenti vacilla. Quello che sa, è che non vuole rinunciare alla felicità, qualsiasi cosa significhi per lei”.
Diario (tragicomico) di una mamma
Nadia Toffa, Fiorire d’inverno
Mi ricordo che quando è successo mi trovavo in vacanza all’estero, l’ho scoperto scorrendo le notizie sul cellulare. Ho guardato il mio compagno e gli ho mostrato il telefonino: non sono neanche riuscita a dirlo, che Nadia Toffa era morta, perché pensavo che la sua battaglia contro il cancro l’avesse già vinta.
Ricordo i commenti sprezzanti su Facebook contro questa ragazza ricca e privilegiata che aveva osato dire che lei ce l’aveva fatta, perché la malattia va affrontata con coraggio. Allora gli altri penseranno che è colpa loro se non ce la fanno, aveva scritto qualcuno.
Nadia Toffa aveva scritto la sua autobiografia, Fiorire d’inverno. La mia storia
Quando uscì, il pubblico più esigente ne parlò come di un’opera acerba, scritta di corsa per cavalcare la notorietà.
La sensazione che ho avuto leggendola invece è stata di un’incredibile, disarmante sincerità.
Nadia Toffa è autentica, racconta se stessa senza cedere alla tentazione dell’approvazione del pubblico.
Emerge il ritratto di una donna contraddistinta da un’autodeterminazione feroce e convinta che nella vita conti l’impegno.
Mi ha fatto pensare a tutte quelle donne forti che hanno dovuto affrontare qualcosa da sole. Non sempre sono simpatiche alla gente, perché sono dirette. Perché ti dicono in faccia di essersi fatte le ossa da sole. Perché sono orgogliose, non mediano la loro autostima con falsa umiltà, con un’umiltà ammiccante.
Nel libro Toffa non dice: sono come voi.
Dice: io sono diventata forte perché ho dovuto, le mie sorelle invece sono deboli.
E affronta persino il suo male con una dignità non comune.
Mi ha ricordato Mars, l’autobiografia di uno scrittore svizzero morto di cancro a poco più di 30 anni. Si chiamava Frederick. Di cognome faceva Angst, che in tedesco significa paura. Mantenne il nome e per cognome scelse lo pseudonimo Zorn, rabbia.
Anche allora i puristi si chiesero se l’opera pubblicata fosse “letteratura”. Forse è di più. È verità, è umanità, è vita.
Claudia Durastanti, La straniera
Se dovessi immaginare questo libro come qualcosa di più fisico, penserei a un cuore di bue grondante di sangue, qualcosa di grosso e denso, pieno di cose, dove quelle non dette sono di più di quelle espresse a parole; e quindi il libro cola, di emozioni di nervi scoperti di pelle graffiata.
La straniera
Nel ripercorrere i ricordi, Claudia Durastanti fa riferimenti alla musica, ai film e alle serie tv, alla vita quotidiana degli anni della sua giovinezza tra Brooklyn e la Basilicata, per poi spostarsi, da adulta, a Londra.
Della sua antica povertà, dice che si ritrova nei comportamenti come una macchia nel DNA: non è quella povertà che mette poco cibo nel piatto, ma quella che incide sul modo di affrontare i sogni.
“Eguaglianza significa che i figli degli operai non diventano solo dottori e avvocati, ma anche scrittori sotto-occupati e pittori in attesa di scoprire se hanno talento”.
Emanuela Canepa, L’animale femmina
Che cosa hanno in comune l’arcigno signore protagonista di questa storia e la sua giovane segretaria, io narrante del romanzo? Sembrano lontanissimi l’uno dall’altra, per età, atteggiamento, classe sociale, autorealizzazione.
Entrambi però sono legati ad amori proibiti.
Lui, omosessuale in un’epoca in cui esserlo era ancora un tabù; lei amante di un uomo sposato.
In entrambi i casi il rischio è che l’amore sovverta l’ordine delle stabili relazioni matrimoniali, per questo i sentimenti vengono ignorati, derisi o amputati come le radici dei bonsai.
Finché si tratta solo di sesso, non può succedere nulla di male. Si può smettere senza soffrire.
Magari per una vita intera.
Alice Borzani
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