Le opere di René Magritte, il pittore surrealista che firmava con la calligrafia infantile, quello della bombetta e della mela verde in faccia, che diceva che la via di fuga è nel sogno, la libertà nel surrealismo, si trovano ora in una mostra, curata con sapienza e amore, al Museo d’Arte della Svizzera Italiana – MASI – di Lugano, dal 16 settembre al 6 gennaio 2019.
Perché, di nuovo, una mostra su Magritte? Gli organizzatori se lo sono chiesti e hanno girato la domanda al pubblico durante la conferenza di presentazione alla stampa di venerdì scorso. Ogni anno vengono allestite mostre su Magritte in tutto il mondo, ma i curatori, Xavier Cannone, Julie Waseige e Guido Comis, hanno fatto un lavoro eccezionale, creando un percorso che racconta, in ordine non solo cronologico ma anche tematico, la sua opera con una lettura inedita, documentando inoltre la relazione tra Magritte e gli artisti, anche italiani, che lo hanno influenzato.
La Ligne de vie, ovvero “la linea della vita”: questo il titolo della mostra, che prende nome e ispirazione da una conferenza tenuta dallo stesso Magritte nel 1938, che diventa quindi il suo ideale filo conduttore. Nel suo discorso pubblico, l’artista belga spiegava le sue influenze, citava gli artisti che lo avevano ispirato, prima fra tutti De Chirico e Max Ernst, spiegava i temi chiave del surrealismo e la necessità dell’arte di “una rottura totale con le abitudini mentali tipiche degli artisti prigionieri del concetto di talento, di virtuosismo e di tutte le piccole raffinatezze estetiche”.
Le opere ospitate costituiscono una collezione vastissima, che comprende non solo i dipinti, ma anche oggetti, statue, litografie, diapositive, schizzi, disegni, poster del periodo in cui lavorò nella pubblicità e persino video, a tratti affascinanti e divertenti, a tratti inquietanti, girati dallo stesso Magritte, in cui riprende se stesso e i componenti della sua famiglia.
Così come affascinante e inquietante era l’arte di questo distinto signore belga in cappotto e bombetta, la sua visione del mondo sempre sorprendente, la capacità di trasformare oggetti quotidiani in immagini perturbanti attraverso lo spaesamento di tali oggetti e la loro decontestualizzazione. Immagini e parole sono associate in modo arbitrario: Magritte sperimentava “il piacere della libertà dipingendo le immagini meno conformiste possibili”, tanto che i titoli dei suoi quadri furono, già durante la sua vita, intesi non come spiegazioni, ma come argomenti di conversazione, perché scelti in modo da impedire ai dipinti di entrare nella comfort zone dello svolgimento automatico del pensiero.
Magritte parlava di un desiderio di “far urlare, se possibile, gli oggetti più familiari”.
La mostra si divide in sette sezioni, corrispondenti ai diversi periodi creativi dell’artista, dal periodo futurista (“ho dipinto tutta una serie di tele futuriste in un vero e proprio stato di ebbrezza”), ai periodi Renoir, durante il quale impiega una tecnica ispirata all’impressionismo, e “vache”, una serie di opere realizzate nel 1948 con colori sgargianti e pennellate grossolane che fanno il verso al fauvismo, fino alla sezione denominata Parole e Immagini, riferimento al momento in cui Magritte mette in discussione il rapporto di un oggetto con la sua forma e quello della sua forma apparente con ciò di cui ha essenzialmente bisogno per esistere: dipinti che rappresentavano oggetti immobili privi di dettagli e caratteristiche contingenti, per rivelare solo la loro essenza e rendere la loro esistenza astratta.
René Magritte nacque nel 1898 a Lessines, presso Charleroi, in Belgio, primo di tre fratelli, da una famiglia della piccola borghesia. Fin da giovanissimo iniziò a prendere lezioni di pittura e successivamente frequentò l’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. Esordì con opere ispirate alle avanguardie cubista e futurista, ma il punto di svolta nell’evoluzione della sua arte è rappresentato dall’incontro con un’opera metafisica di Giorgio De Chirico, che egli vide riprodotta in una rivista a metà degli anni venti.
Dopo il matrimonio con Georgette, cui sarebbe stato legato per tutta la vita, si mantenne lavorando come disegnatore per una fabbrica di carte da parati; successivamente produsse poster per l’industria pubblicitaria.
Nauseato dalla critica belga, che lo aveva attaccato per la “rarità” e l'”ambiguità” dei suoi dipinti, nel 1927 si trasferì a Parigi e si unì ai surrealisti francesi; negli anni Trenta esponeva già negli Stati Uniti, dove la sua opera nei decenni successivi alla Guerra Mondiale sarebbe stata sempre più apprezzata dai collezionisti. Magritte accolse il proprio successo con piacere e la resa economica delle sue opere con ingenuo stupore: a quel tempo, non avrebbe immaginato che dopo la sua morte, avvenuta nell’agosto del 1967, quelle stesse opere avrebbero avuto un valore inestimabile e lo avrebbero collocato per l’eternità tra i grandissimi dell’arte.
“Come può il pubblico non essere nauseato nel guardare per
l’ennesima volta (…) lo stesso vecchio muro della chiesa, al sole o al chiaro di luna? O quelle cipolle e quelle uova, una volta a destra, una volta a sinistra dell’immancabile pentola di rame dai riflessi prestabiliti? O quel cigno che fin dall’antichità si prepara a penetrare le migliaia di Leda? (…) Il corpo di una donna che galleggia sopra una città ha sostituito efficacemente le figure degli angeli che non mi si sono mai rivelati; ho trovato molto utile vedere la biancheria della Vergine Maria e l’ho mostrata sotto questa nuova luce; i campanelli di ferro appesi al collo dei nostri meravigliosi cavalli, ho preferito credere che crescessero come piante pericolose ai margini degli abissi…”
Magritte, La ligne de vie, 1938
Il MASI, dove questa mostra è ospitata, è un luogo adibito all’arte, una struttura di design che si affaccia con ampie vetrate sul lago di Lugano. Entrare in una delle stanze del museo e vedere un’opera eterna sullo sfondo argentato delle acque del lago ha sul visitatore un impatto che lascia senza fiato: la bellezza della natura si armonizza totalmente con la bellezza creata dai grandi uomini dell’arte moderna.